La declinazione economico-finanziaria dell'Apocalisse

 

di Christian Caliandro

 

Che cos’è la fine? La fine è, da quasi tre anni, la nostra dimensione. Ci sono periodi - come quello attuale - che si trovano a riflettere consapevolmente e inconsapevolmente sul concetto della fine. La crisi economico-finanziaria e sociale di questi anni è un varco, un interstizio attraverso cui si passa inevitabilmente per produrre il senso contemporaneo della fine, dell’apocalisse.

 

Capita così che, anche a livello terminologico, l’apocalisse salti fuori ormai quasi quotidianamente, associata al contesto economico: “Barack Obama evoca Armageddon per far capire agli americani che è ormai arrivato il momento nel qualetutti devono accettare di fare dei sacrifici’ al fine di scongiurare il default del 2 agosto. La cornice in cui evoca l’Apocalisse biblica, che nel 1998 diede il titolo al film di Hollywood con Bruce Willis e Ben Affleck, è la conferenza stampa nella Brady’s Room della Casa Bianca. (…) Finora il ministro del Tesoro Tim Geithner e il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke avevano adoperato il terminecatastrofe’ per descrivere l’impatto del default - l’impossibilità dello Stato a fare fronte agli obblighi finanziari - ma la scelta di Obama di passare ad ‘Armageddon’ punta a trasmettere ad un popolo di credenti la convinzione che il peggio sia imminente, dalla sospensione degli assegni previdenziali al blocco degli stipendi dei militari (M. Molinari, “Obama, mano tesa sul debito: ‘Ora evitiamo l’Armageddon’”, La Stampa, sabato 16 luglio 2011, p. 15).

 

Quindi, dal fallout (nucleare) al default (economico), il passo è più breve di quel che si pensi.

 

Quali sono le caratteristiche dell’Apocalisse contemporanea? Lo Spettacolo, innanzitutto. Anche la fine dei tempi e di un’intera civiltà viene infatti adeguatamente mediata e auratizzata, passa inevitabilmente attraverso i dispositivi informativi e spettacolari che filtrano la nostra vita sociale, culturale e immaginaria: l’entertainment. 

 

Ciò comporta una serie di variazioni significative sul tema: dal filosofo neolacaniano che scopre alle soglie della tarda età i piaceri della scrittura profetica (Slavoj Zizek, “Vivere alla fine dei tempi”, 2011), al gruppo rock composto unicamente di ologrammi che infarcisce le sue canzoni di riferimenti musicali e visivi al disastro terminale (l’ultimo album dei Gorillaz).

 

Poi, sembra di riconoscere chiaramente, nel senso contemporaneo dell’apocalisse, una certa sensazione di impermanenza (abbastanza paradossale per la verità, ma a suo modo interessante). La civiltà che conoscevamo, come la conoscevamo, finisce per implosione, per esaurimento delle prospettive, degli orizzonti e delle opzioni disponibili. Non è solo una questione di mercato, e dei suoi confini; è soprattutto un problema di progetto e di visione.

 

Si fa strada cioè l’idea che, finito il mondo che ci era familiare, potremmo anche, in fondo, stare meglio. Essere più felici. È qui che molto probabilmente risiede e trova spazio l’elaborazione del punto di vista post-apocalittico, oggi: il racconto di ciò che viene DOPO la fine, e la configurazione di un nuovo inizio – per quanto, e proprio in quanto - rudimentale, approssimato, precario.

 

L’Apocalisse stessa, di fatto, se ci pensiamo bene, è una forma estrema di nostalgia del futuro. Come dice la precog Agatha in “Minority Report” (Steven Spielberg 2002), ispirato allo splendido racconto di Philip K. Dick: “Sono stanca del futuro!”.

 

Negli ultimi decenni, infatti, il futuro non è stato possibile neanche più immaginarlo. La fine dei tempi e l’apocalisse si presentano quindi come l’impossibilità stessa di immaginare e proiettare il futuro. Come fine dell’idea di futuro.