Gli Usa e l’Ue
volti in crisi dell’Occidente
Gianni
Riotta
24/03/2014
Quanto
tempo è passato dall’aprile 2009 quando il presidente Barack Obama, entusiasta
per l’elezione, proclamava a Praga di volere «un mondo in pace, sicurezza e
senza armi nucleari»? E quante stagioni son passate dall’aprile 2010, quando
nella stessa capitale Ceca, Obama parlava con al fianco l’allora presidente
russo Medvedev, definendolo «amico e partner…che condivide l’impegno di
cooperazione»? Quanto in fretta America, Europa e Russia hanno logorato le
speranze del dopo Guerra Fredda, mentre la crisi Ucraina vede la prima
violazione di confini in Europa dalla caduta del Muro di Berlino.
Obama
ritorna in Europa, leader ridimensionato dalla forza della Storia, non più
Dioscuro infallibile, «anatra zoppa» in minoranza nei consensi, accolto con
diffidenza dagli alleati –che hanno detestato la sua performance nel caso dei
metadati segreti Nsa-, con preoccupazione dai sauditi, che vedrà in chiusura
della missione, delusi dalla Casa Bianca su Siria e Iran. E il Cremlino di
Vladimir Vladimirovich Putin gioca sempre lo stesso bluff, mettere alla prova
la risolutezza di Usa e Ue, come ai tempi di G.W. Bush in Georgia, scommettendo
che l’Occidente reagirà con burocratica impotenza, mascherata da «saggezza
diplomatica».
L’annessione
della Crimea a Mosca non ha solo offerto agli storici la data finale del «dopo
Guerra Fredda», ha anche svelato la debolezza strategica di Washington e
Bruxelles. Che hanno sottovalutato la Russia, crollata con il castello di
menzogne dell’Urss, l’«Impero del Male» criticato da Reagan, pensando di poter
allargare la Nato, dialogare con Pechino, ignorare storia e orgoglio slavo
senza timori. In un libro edito da La Stampa nel 1987, che varrebbe la pena di
pubblicare online, «Caro Gorbaciov, caro Natta», il grande columnist ex
comunista Frane Barbieri discute del giudizio del premio Nobel Solgenitsin:
L’Occidente sarà sconfitto, perché insiste nel confronto diplomatico con
l’Urss, non comprendendo come il popolo russo, ostile al Pcus e al Cremlino,
sia il vero interlocutore. Barbieri è scettico sul messianismo dell’autore di
«Arcipelago Gulag», ma il dilemma resta irrisolto. America ed Europa non sanno
ingaggiare né «il popolo russo», né il Cremlino. O sopravvalutano Mosca, come
la Cia che nel 1978, mentre la studiosa Hélène Carrère d’Encausse già parlava
di «esplosione dell’impero sovietico», ancora sfornava cifre mirabolanti su
produzione e armamenti Urss, o prendono sottogamba l’orso, come con Putin,
scontandone poi la reazione rabbiosa.
Né
Obama, né gli europei, né la Nato sanno in realtà come reagire all’attacco di
Putin in Ucraina. Obbligati dal Memorandum di Budapest 1994
(http://goo.gl/d0OSrP) a preservare l’integrità territoriale ucraina (è il
patto firmato da Kiev, in cambio della cessione dell’apparato nucleare
sovietico), americani ed europei pendolano invece tra un gradasso minacciare
sanzioni dal poco effetto, a un pavido richiedere la tutela di contratti e
provviste di energia da Mosca, come fanno gli industriali tedeschi, senza
pudore, con la Cancelliera Merkel (del resto l’ex premier Schroeder lavora oggi
come lobbista per Putin). Il capo militare Nato, generale Breedlove, avverte
che Putin ammassa truppe e mezzi corazzati al confine con la Transnistria,
altri osservatori parlano di manovre ai confini ucraini, ma l’esperto di
sicurezza europea Christopher Chivvis conferma al Council on Foreign Relations:
è impossibile una reazione militare per sostenere Kiev, il Pentagono da anni
non lascia neppure discutere piani simili per non irritare Mosca.
È
dalla caduta del Muro di Berlino che europei e americani non hanno una comune
strategia. Nel 2004 la Commissione Esteri della Camera dei Deputati Usa mi
invitò con altri analisti, c’era Radek Sikorski oggi ministro degli Esteri
polacco, per discutere di intesa atlantica, dopo la rottura in Iraq. A
rileggere quel dibattito al Congresso (http://goo.gl/Lw3lLd) sgomenta la
distanza che s’è aperta. Gli europei sognano di prolungare lo status quo
perduto dopo il 1945, gli americani, illusi di poter fare «pivot», guardare
all’Asia anziché all’Europa, non sanno coprire le due opposte frontiere.
Quel
che resta della scialba intesa Washington-Bruxelles si estenua nella trattativa
Ttip, il patto di commercio e investimenti atlantico che non si firma mai, non
per intoppi su tariffe e dazi, superabilissimi, ma per opposizione culturali su
produzione, scuola, mercato. In Italia il blog di Beppe Grillo considera Ttip
«pura follia» e lo dipinge come una piovra con cilindro e sigaro Avana che
opprime il mondo; negli Usa la leader «no global» Lori Wallach è certa che «con
il Ttip vogliono ucciderci»; in Francia il filosofo Pierre Manent spiega che
«il libero commercio impigrisce».
L’Europa
erede di De Gasperi, Adenauer, Schuman, democrazia, mercato, pace, era sicura
dei propri valori condivisi, l’America erede di Roosevelt, Kennan, Kennedy,
democrazia, mercato, sicurezza, altrettanto radicata nella propria tradizione.
Oggi l’Occidente non è sicuro di se stesso, non ha coraggio morale, spirito di
sacrificio, orgoglio culturale. Per questo Putin gioca d’azzardo, per questo la
Cina sta a guardare, diffidente, mentre Usa ed Ue si baloccano tra diplomazia
inane e mobilitazione militare impossibile, nell’angoscia di una mossa spericolata
del Cremlino che li riporti, di botto, a Cuba 1962, così lontani dalla Praga
magica di Obama 2008.
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