Una condanna a ogni costo
Alessandro
Perissinotto
C’era una volta l’assoluzione per insufficienza di prove. Era una macchia che
ti portavi dietro per tutta la vita, più di
una condanna.
La
condanna era il preludio alla redenzione,
era il castigo dopo il delitto;
l’insufficienza di prove
era il sospetto che non ti scrollavi
di dosso. E se per qualcuno l’insufficienza di prove corrispondeva a una sconfitta della
giustizia, per altri rappresentava il momento più alto, quello in cui la giustizia stessa accetta i propri limiti,
ammette che non si è in grado di
andare oltre ogni ragionevole dubbio: una giustizia
senza deliri di onnipotenza. Oggi, sebbene l’articolo
530 del Codice di Procedura Penale faccia ancora riferimento
all’insufficienza della prova, sembra che
nessuno sia più disposto a riconoscere che esiste un confine sul quale bisogna arrestarsi
e il processo ad Amanda
Knox e a Raffaele Sollecito
lo dimostra.
Condannati, poi assolti
e poi condannati un’altra volta. E a ogni grado di processo,
le prove diventano sempre più esili; ci
si aggrappa a una piccola traccia
del Dna di Amanda su un coltello da cucina che
la ragazza può avere utilizzato per sgozzare l’amica o per tagliare le cipolle. Eppure, quelle tre lettere, Dna,
sembrano essere la parola magica per aprire sempre e comunque lo scrigno della verità. Idolatriamo
il dato scientifico
come se questo, da solo,
fosse capace a spiegare ogni cosa e dimentichiamo
che i dati
vanno interpretati. Arriviamo addirittura a mettere in secondo piano i moventi. Nel
corso dei vari processi, il delitto di
Perugia è stato presentato
come esito di un festino erotico finito male, come violenza sessuale, fino a divenire, nella requisitoria del Procuratore Generale Alessandro Crini, l’epilogo di una
lite per la pulizia della casa.
Difficile, in queste condizioni, credere che la giustizia sapesse davvero dove stava andando. Ma non importa, basta un frammento di Dna
a salvare la dignità della pubblica accusa. Nel marzo
2009, la casa di via della
Pergola dove avvenne il delitto fu visitata dai ladri che
rubarono il materasso su cui Meredith era stata uccisa e questo fu possibile perché la procura di Perugia, per non alterare la scena del crimine (!), aveva vietato che
venissero apposte delle inferriate alle finestre. Ma si va avanti
ugualmente, appellandosi all’evanescenza di qualche molecola, perché la pressione mediatica è troppo forte e nessuno vuole fare un atto di umiltà
confessando che la verità può anche
sfuggire. Abbiamo messo in piedi una vera industria
mediatica del crimine: non c’è emittente televisiva
che non abbia la propria trasmissione di «real crime». La cronaca nera diventa spettacolo,
intrattenimento, morbosa esibizione di dolore;
gli investigatori veri devono reggere
il paragone con quelli della fiction, che non sbagliano mai, che risolvono
tutto: chi mai vorrà ammettere di non essere alla
loro altezza? E allora si va
avanti.
Enzo Tortora disse una volta
che, in Italia, si sarebbe dovuta proibire la messa in onda di Perry Mason perché, guardando la Tv, gli italiani
si facevano un’idea sbagliata della giustizia. Non immaginava che le cose avrebbero potuto ancora peggiorare.
Certo, dovremo leggere le motivazioni per capire se è bastata una traccia di
Dna per emettere una sentenza così
pesante, ma l’impressione di una condanna
ad ogni costo è forte. E a questa amarezza se ne aggiunge un’altra, più sottile: a Raffaele Sollecito verrà tolto il
passaporto, mentre per
Amanda, ci dice la corte,
non sono necessarie misure restrittive, tanto è già a Seattle: che tu sia
sospettato di aver sgozzato una ragazza
a Perugia, o di aver abbattuto
una funivia a Cavalese, o di aver ucciso un funzionario italiano in Iraq, il fatto di essere
cittadino statunitense dà sempre una
certa tranquillità. La situazione inversa, quella di straniero
accusato negli Stati Uniti, è molto più scomoda: ce
lo ricorda il più che controverso
caso di Chico Forti, condannato per omicidio a Miami, nonostante che la giuria stessa
abbia ammesso l’inesistenza di prove.