Lo specchio del mondo
GIANNI RIOTTA
I missili antiterrorismo sui tetti son rimasti in allerta ma senza sparare, la folla non ha paralizzato i treni della metropolitana Tube.
i soldati son riusciti a sostituire le guardie private rimaste a casa. Spot e sponsor non hanno prevalso sul sudore degli atleti. Londra, con la gotica stazione di St. Pancras, i pub dove si continua a mangiare malissimo, il British Museum svuotato dagli appelli eccessivi del sindaco Johnson «La città sarà invasa!», i negozi di Tottenham e Brixton riverniciati dopo la rivolta dell’agosto 2011, ha fatto da sfondo magnifico, come già nel 1908 e nel 1948.
Le Olimpiadi 2012 finiranno stasera e vedremo se gli organizzatori ci daranno uno show affascinante come al debutto, il 27 luglio, la Elisabetta II Bond Girl e gli «Oscuri mulini satanici» del capitalismo celebrati con il Servizio sanitario nazionale inglese. Tutti noi, chi ammira Usain Bolt e la sua esultanza arrogante da Achille, «Sono leggenda vivente», e chi invece preferisce la modestia del keniano David Rudisha che, senza enfasi come Ettore, segna il tempo record negli 800 metri, abbiamo visto la nostra epoca riflessa nei Giochi di Londra. Atleti cacciati per un tweet di troppo su Internet, atlete ammesse col velo islamico da Paesi debuttanti con la squadra femminile. Le prime medaglie della boxe donne. Un atleta amputato in finale della staffetta 4x400. Dal Sud Africa all’Italia tante squadre multietniche. Un profugo somalo, fuggito alla guerra civile di Mogadiscio, vince l’oro per la Gran Bretagna adottiva. Il nostro confuso, violento, indebitato, tecnologico, globale e ambizioso XXI Secolo protagonista in ogni gara.
Abbiamo visto allo specchio dei Giochi bene e male contemporanei, ogni nazione tessera del caleidoscopio presente. L’Italia ha brillato con le vittorie, dall’arco alla scherma, la solita buona, antica, solida Italia di chi lavora e ha talento. E ha sprecato prestigio col doping di Schwazer, la solita cattiva, antica, deprecabile Italia di chi intriga per mancanza di talento. Gli esperti di sport tireranno i bilanci del campo, flop Pellegrini e nuoto, talk show in piscina, le rapide d’oro di Molmenti che porterà il tricolore d’Italia stanotte allo Stadio Olimpico, l’atletica senza lampi, la boxe tenace del ring sudista di Marcianise. Il nostro medagliere resta nel G 10 dello sport, un po’ come l’economia, 1900 miliardi di debito pubblico, 9000 di ricchezza privata. Siamo poveri e siamo ricchi nei budget come tra i Cinque Cerchi, restiamo in alto, mentre si affermano nuovi Paesi: senza fondi, pratica sportiva nelle scuole, programmi seri, collaborazione pubblico-privati, perderemo rango.
La Gran Bretagna ha vinto, tra gli altri ori che la tengono al terzo posto dietro Usa e Cina potenze globali, il titolo cui teneva moltissimo: l’identità britannica è più precisa nella coscienza del mondo. La Cina è il nuovo impero che conta su un Secolo Asiatico. L’America tiene duro, con il laboratorio spaziale Curiosity lanciato su Marte e con il Dream Team Marziano del basket. Dietro avanzano i nuovi soggetti, l’Egitto sul podio nella scherma come il Venezuela, la Corea del Sud, l’isoletta caraibica di Grenada che, in rapporto vittorie-popolazione, è al primo posto nei Giochi, la Giamaica che celebra mezzo secolo di indipendenza con Bolt&Blake. Le cronache finanziarie si occupano di dollari, euro e yuan?
Bene, la sterlina di Sua Maestà Britannica fa sapere al mondo che le sue glorie non sono finite nel XIX secolo. Una generazione ricordava l’Inghilterra della bombetta, la V e il sigaro di Churchill, il tè alle 5, l’Impero. Un’altra s’è divisa tra Beatles e Rolling Stones, i capelloni, ha applaudito l’economia della Thatcher o il laburismo di Tony Benn. I più giovani hanno suonato i Clash e sognato, o detestato, la nuova sinistra di Blair. I Giochi tatuano la nuova identità inglese nella coscienza del mondo informatico. Il Big Ben risuona, la democrazia di Westminster legifera, la regalità di Buckingham Palace esulta, la New Great Britain, «Team GB» nel gergo dei tifosi, multietnica, elettronica, né americana e neppure europea, non più imperiale ma capace di reclutare atleti ovunque nel mondo, madre della lingua che fa da dialetto comune al Villaggio Olimpico, si presenta al mondo. Siamo antichi, ci siamo aggiornati, ma siamo sempre noi, con più colori, più voci, una storia lunga, dolorosa e magnifica, dicono i padroni di casa.
Tanto rimane da migliorare nelle Olimpiadi. Politici, sponsor, polemisti, fanno ancora troppo chiasso, l’accesso ai biglietti deve essere meno kafkiano, il doping va sconfitto e la pena degli atleti delle dittature, siriani e nord coreani per esempio, speriamo sia meno acuta fra quattro anni. Ma i Giochi restano la grande festa di paese del nostro mondo, la sagra dei nostri pregi e difetti, struscio planetario dove tutti ci incontriamo, tifiamo per la nostra Contrada come nel Palio del Pianeta Terra, invidiamo i successi e la forza degli altri. Tornati a casa impariamo le tecniche che non conoscevamo, e le miglioriamo. Si chiama progresso.
Alla tv tanti bambini hanno visto Bolt fare lo smargiasso, la Idem competere a poco meno di 50 anni, Mitchell degli Stati Uniti finire la sua frazione di staffetta 4x400 con la gamba rotta «Un male cane, ma non potevo tradire i compagni». Si sono ispirati, non a comprare bibite o panini, a competere, allenarsi, faticare, darci dentro, essere leali. Un pugno di loro andrà sui podi del futuro. Tutti gli altri ricorderanno la lezione di Londra nel tran tran in ufficio, al lavoro, la vita normale. Lasciate che cinici e snob ridano di questa tradizione. Per chi ha a cuore il mondo, lo sport, la comunità, i sentimenti semplici, commozione, passione, impegno, fratellanza, agonismo, lealtà, per tutti noi cioè, appuntamento a Rio de Janeiro 2016 (e forza Azzurri!).
Gianni Riotta
Twitter@riotta