L'economia allarga l'Atlantico
Vittorio Emanuele Parsi
6/6/2012
Ci sono cause contingenti e cause di più lungo periodo nella ruvidezza e nell’urgenza con cui il presidente Obama sta ripetutamente strigliando i leader europei.
L’intenzione è spronarli, soprattutto Angela Merkel, a prendere le misure necessarie per evitare una recessione globale. Le cause del primo tipo sono legate all’approssimarsi della scadenza elettorale. È forte, e per nulla infondato, il sospetto dell’amministrazione Obama che la recessione europea possa provocare un effetto boomerang sull’economia americana (dalla quale il contagio era partito) e che comunque sia corresponsabile del peggioramento inatteso dei dati sull’occupazione negli Stati Uniti. Si tratta, evidentemente, di un lusso che il Presidente non può permettersi a 5 mesi dalle elezioni, com’è ampiamente dimostrato dal fatto che Mitt Romney abbia raggiunto il Presidente nei sondaggi.
Le seconde sono legate alla tenuta del rapporto transatlantico e alla solidità e prospettiva del concetto di Occidente. Quest’ultimo appare paradossalmente più saldo (almeno per ora) quando sono in gioco questioni strategiche e di sicurezza. Nonostante le aspre divisioni con Francia e Germania sulla guerra in Iraq e il ventilato ritiro anticipato del contingente francese dall’Afghanistan, sono state proprio le recenti crisi divampate a seguito delle Primavere arabe che hanno visto l’Occidente procedere più compatto di quanto ci si potesse attendere. Se l’intervento militare della Nato in Libia non ha registrato significative defezioni, anche le pressioni sul regime di Assad in Siria sono state condivise da Washington e dalle principali capitali dell’Unione. Persino la crisi legata al nucleare iraniano ha registrato una convergenza transatlantica per nulla scontata. Da notare, infine, che la concorde fermezza occidentale dimostrata in queste occasioni ha evidenziato la perdurante distanza degli standard etici (oltre che degli interessi) tra il Cremlino e i governi europei, contribuendo a riallontanare quella prospettiva eurasiatica tanto cara a Mosca e al cui fascino neppure Berlino è apparsa sempre immune.
In questi mesi, però, è la solidità sul piano economico e finanziario del blocco occidentale a mostrare crepe preoccupanti. In particolare, ciò che inizia a palesarsi è che un’Europa (meno) unita sotto la (solitaria e miope) leadership tedesca potrebbe essere sempre più proclive ad allentare le ragioni economiche e culturali della solidarietà occidentale. È vero che la crisi colpisce primariamente l’Europa ma è vero anche che, in un continente in difficoltà, la Germania va in controtendenza. Le sue industrie continuano a produrre, i suoi conti sono in ordine e l’inflazione bassa; grazie alla debolezza dell’euro, oltretutto, la Germania gode di una svalutazione che, senza macchiare il «blasone» del suo rigorismo finanziario, non può che avvantaggiare la seconda economia esportatrice del pianeta.
Per anni Washington ha visto nella Germania il suo più leale alleato e lo stesso progetto di unificazione europea venne appoggiato da Washington anche per ancorare la Germania all’Occidente atlantico, quando essa era l’estrema marca di un confine militarizzato sul quale stava un nemico la cui presenza ricordava ogni giorno la necessità del legame transatlantico. E proprio la divisione tedesca rafforzava la prospettiva atlantista della Germania. Dalla fine di quel mondo sono passati oltre 20 anni. E quello che le guerre in Iraq e Afghanistan non sono riuscite a fare - indebolire le ragioni dell’alleanza - potrebbe verificarsi oggi a causa della crisi e di una Germania forse non abbastanza audace per perseguire consapevolmente un «gran disegno», ma sufficiente «cocciuta» per insidiare le basi dell’alleanza occidentale.
A Washington ci si ritorna così a chiedere se l’egemonia tedesca sul vecchio continente sia compatibile con un «Occidente atlantico» e, soprattutto, si riflette se piuttosto che paventare il rischio che la nuova Cina possa seguire le orme della Germania guglielmina (tentando l’assalto all’egemonia continentale), non debba invece destare più preoccupazione la possibilità che la Germania di Angela Merkel sia tentata dal seguire le orme della Cina odierna: una forte export led economy assistita da una moneta (l’euro) debole. E se fosse di natura economica quella «guerra su due fronti» teorizzata dagli strateghi del Pentagono come la sfida più pericolosa per l’egemonia americana?