Sette anni senza gloria
Lucia Annunziata
Conclusione senza gloria
- né quella della vittoria, né quella della sconfitta. Il conflitto
che gli Usa
hanno scatenato in Iraq, finito ieri, con prudenti dieci giorni di anticipo,
è stato a tutti gli effetti una
guerra mediocre.
Che
si ricorderà più per quello che ha involontariamente rivelato, che per quello che ha volontariamente
ottenuto.
Iniziata come Guerre Stellari,
finita alla chetichella. Iniziata con una seduta dell’Onu
in mondovisione per svelare
le armi di distruzione di massa in mano a Saddam, finita con una silenziosa corsa notturna nel deserto
della colonna corazzata della «4th Stryker Brigade», ultima brigata combattente degli Usa in Iraq. Niente di eccezionale ha immortalato il
momento, nessuna emozione particolare, nessun elicottero che si alza
in volo con gli ultimi civili. Della fine della seconda guerra
irachena possiamo dire che ci ricorderemo
solo la eccezionale quiete
della ritirata notturna, perfetto contrappunto alla rumorosa galoppata
con cui sette anni e mezzo fa la cavalleria meccanizzata americana aveva attraversato quello stesso deserto
puntando a Baghdad. Fra l’inizio eroico e questa fine silenziosa giace un periodo
del declino della stessa storia americana.
Ricordiamola ora. Nella strategia
del presidente americano George Bush, la guerra
a Saddam Hussein ha avuto un posto
senza precedenti. Gli Stati Uniti
usciti a malapena integri dall’attacco alle Torri Gemelle,
nel 2001, avevano già risposto aprendo
un fronte di guerra al terrorismo
di Al Qaeda in Afghanistan, con il
consenso e l’aiuto di tutti i
suoi alleati europei. Ma la sicurezza del mondo era ben
lontana dall’essere restaurata.
L’intervento in Iraq venne individuato da Washington come la prima mossa
per riorganizzare i rapporti di forza
globali, nell’era in cui agli Stati Uniti
toccava l’onere e l’onore di essere
l’unica grande potenza rimasta
a garanzia contro il caos. Iraq piattaforma
geografica perfetta nel cuore del
Medioriente radicale religioso, Iraq forziere petrolifero ancora ampiamente non sfruttato e, soprattutto, Iraq governato da un
indiscusso dittatore con un
conto aperto con gli Usa e la famiglia
Bush da una guerra precedente. Iraq dunque nuovo laboratorio di un futuro migliore
- la prima guerra americana
in cui gli Usa non si limitavano a «difendere» la democrazia, ma si impegnavano a esportarla, creandone le condizioni dalla radice. Dopo le Due Torri, gli Usa sarebbero stati al sicuro solo se si fosse ridisegnata la mappa morale e sociale e politica delle nazioni come le conoscevamo.
Teoria affascinante e pericolosa, che Washington abbracciò ammettendo con chiarezza - anche questa per la prima volta nella sua storia-
che gli Usa
potessero essere i primi ad attaccare,
che le vecchie regole diplomatiche erano solo dei lacci che indebolivano
il mondo, che le alleanze come si conoscevano erano solo una vecchia scarpa con cui non si poteva più
correre.
A rievocare questi pensieri, le paure da cui erano nati, non meraviglia, oggi, ripensare anche alla carica quasi messianica che Washington mise nel preparare
l’intervento in Iraq. Per sostenere la necessità di combattere
Baghdad venne mandato all’Onu a dire bugie sulle armi di
distruzione di massa in possesso
di Saddam Hussein un bravissimo
uomo e un ottimo generale, Colin Powell, la cui carriera
ne è uscita distrutta. Sullo stesso altare
vennero sacrificati Tony
Blair e molti degli alleati europei che giurarono sulle
stesse prove non provate.
Si chiamò alla fine «guerra preventiva», e ben prima della caduta di Saddam Hussein, portò con sé la cancellazione del multilateralismo,
la fine della diplomazia, e la spaccatura
dell’Alleanza Atlantica.
E forse
è stato solo conseguente che un conflitto
nato su delle
forzature, e su delle pure bugie, si sia poi sviluppato
senza grandi successi, e senza onore. Saddam venne
rovesciato, è vero. Ma di tutto quello che avrebbe
dovuto essere, questo è stato quasi l’unico obiettivo raggiunto. Per il
resto, sette anni e mezzo in Iraq hanno svelato solo il volto peggiore delle guerre moderne: senza eroi, senza
scopo, e con troppo denaro in ballo.
Ricorderemo così il conflitto iracheno come la involontaria esposizione di piccole e grandi infamie. Dell’Iraq ora sappiamo come era fatto: generali che si vendettero
agli Usa
mentre ancora giuravano fedeltà al capo, un dittatore che dopo
tanti assassini e tanti proclami corse a nascondersi in un buco nell’ora della disfatta del suo Paese, bande di
terroristi armati dediti al rapimento, alle uccisioni di massa, alla
vendetta religiosa tra versioni varie dell’Islam. Degli Usa, anche,
sappiamo oggi più di prima: sappiamo
delle torture di Abu
Ghraib, sappiamo di un esercito di professione
ormai proletarizzato e insufficiente nei numeri, sappiamo dell’impiego massiccio di contractors (mercenari), sappiamo di attacchi
indiscriminati ai civili e dell’uso del fosforo nei combattimenti.
Sette anni e mezzo senza gloria, appunto,
come si diceva, da una parte e dall’altra. Sette anni e mezzo in cui insieme a Saddam è caduta una parte molto importante del discorso politico Usa: non solo la democrazia non si può esportare;
in discussione oggi è la stessa missione etica del popolo americano.
L’Iraq in questo senso segna la fine dell’innocenza di una grande nazione,
senza neppure l’alibi di un grande
scontro, di una grande passione
ideologica, come quello che fu combattuto intorno al Vietnam. Senza eroismo da segnalare da parte degli americani, né eroi da additare
ad esempio - come, va ripetuto, il Vietnam pure aveva prodotto.
Una mediocre guerra, di una mediocre presidenza americana.
Il cui unico simbolo che rimarrà
è un uomo nudo, tenuto in piedi dai fili elettrici
che lo torturano. Ma senza volto, coperto
da un cappuccio. Segno che nemmeno il nemico, anche quello che
si tortura, si conosce più.