Obbligati a finire l'opera

 

Lucia Annunziata

 

Per capire la decisione di Obama sull’Afghanistan val la pena di ripassare alcuni numeri. Nel 2000 i paesi occidentali producevano da soli il 55% della ricchezza mondiale - nel 2025 produrranno il 40%. In quella data, l’Asia ne produrrà il 38%, rispetto all’attuale 24. Un sostanziale pareggio. Demograficamente il rapporto fra Ovest ed Est si può raccontare in maniera ancora più spettacolare: nel 2025 la popolazione di America ed Europa insieme costituirà il 9% di quella mondiale (nel 19° secolo, all’apice della sua influenza, l’Europa da sola rappresentava il 22%, cioè quanto la Cina oggi), mentre l’Asia ospiterà il 50% dei cittadini del mondo. Come dire: in quindici anni una persona su due al mondo sarà asiatica.

 

Leggendo questi numeri, tratti da uno studio della influente Fondazione Notre Europe, di cui è oggi presidente l’ex ministro del Tesoro Tommaso Padoa-Schioppa, c’è una sola domanda cui rispondere: possono davvero Usa ed Europa non impegnarsi a fondo nella guerra in Afghanistan?

 

Il legame fra quel conflitto e la velocissima ridefinizione in corso dei rapporti di forza internazionali è forse poco apparente, ma fondamentale.

 

La guerra afghana non è stata iniziata dall’attuale Presidente americano e sicuramente quando è stata avviata era stata immaginata dall’allora presidente Bush nel contesto dell’attacco dell’11 settembre agli Usa. Ma fin da allora la discesa in campo di Washington aveva sullo sfondo l’Asia, e la Cina in particolare. A fronte della rapida crescita di quell’area del mondo, gli Stati Uniti si sono ritrovati in effetti privi di efficaci strumenti di intervento, proprio nella data che ha fatto da spartiacque fra un secolo e un altro.

 

La Nato, principale struttura del governo occidentale per quasi mezzo secolo, è stata costruita con in mente la minaccia sovietica della Guerra Fredda. Le alleanze mediorientali, un cesto misto di Israele più un gruppetto di Paesi arabi moderati, sono state tirate su con l’idea che Washington potesse agire, in quella area, via controllo remoto. Cioè tirando i fili da lontano, grazie alle molte leve di aiuti economici, interventi coperti, petrolio e lobbismo. Uno schema di lavoro diplomatico-militare applicato d’altra parte dagli Usa in molte altre aree del mondo, tutte quelle più o meno catalogate «in via di sviluppo».

 

Strumenti vecchi, dunque, per una visione vecchia del mondo. Mentre ancora in Occidente, guardando ai resti del Muro, ci si gingillava con il concetto di Fine della Storia, la Vecchia Talpa era in effetti già riemersa altrove. Senza farla troppo lunga, dal momento che questa è ormai cronaca sotto gli occhi di tutti, la globalizzazione ha espanso la ricchezza di paesi fino a poco prima «in via di sviluppo», ed ha avviato un capovolgimento in poco più di venti anni del rapporto di forze tra nazioni. La Cina, con il suo grande balzo verso il capitalismo, è stata uno dei motori della globalizzazione, come sappiamo. Si è trascinata dietro l’intera Asia, come sappiamo. Le domande poste da questa crescita hanno direttamente alzato la pressione intorno alle fonti energetiche, al potere di acquisto e alla supremazia produttiva dell’Occidente. In questo senso l’attacco terroristico iniziato contro di noi nel 2001 non è l’inizio delle guerre che oggi sono in corso, ma è il frutto e la rappresentazione del potenziale tellurico che c’è in questo cambiamento di rapporti di forza. Anche questo sappiamo.

 

Quello che meno sappiamo, da occidentali, da almeno un decennio, è come confrontarci con queste nuove richieste di questi nuovi poteri. Bush, dopo l’emergenza del 2001, ebbe una idea. Discutibile, come è stata, ma sicuramente una idea. Avanzare il fronte della presenza americana. Avanzarlo letteralmente - nel senso, cioè, di creare attraverso le invasioni di alcuni paesi nuove roccaforti di presenza Usa, piantate direttamente nel cuore dei nuovi equilibri. Il controllo dell’Iraq, dell’Afghanistan, del Pakistan, che direttamente o meno gli Usa si ritrovano, aggiunto alla solida alleanza con l’India, forma, se guardiamo alle carte geografiche, una lunga fascia di presidio diretto. Una sorta di cintura Gibaud, che abbraccia i paesi del petrolio, amici e nemici; ma, anche, fa da contenimento, sotto la pancia del Caucaso e della Cina.

 

Le guerre di Bush sono state molto criticate, e si sono rivelate certo meno efficaci e veloci di quel che il Presidente allora aveva promesso. Ma l’idea del «Contenimento» dell’Asia e della Cina in particolare è di sicuro oggi il punto numero uno dell’agenda mondiale. Contenimento nel senso di espansione di influenza, ma anche, e per ora soprattutto, nel senso di accesso alle fonti di energia. Questo è da dieci anni il nuovo potenziale conflitto nel mondo.

 

Obama non solo lo ha ereditato, ma rischia addirittura di esserne schiacciato: il ruolo che la Cina ha avuto e può avere nella crisi economica americana è oggi infatti il vero tallone d’Achille del presidente Usa.

 

Certo, Obama non è Bush. Non crede alla guerra come soluzione unica e finale. È arrivato al potere promettendo rispetto e parità nelle relazioni fra nazioni. Si è impegnato a farlo usando tutti gli strumenti che già conosciamo, e se possibile inventandosene di nuovi. Rapporti bilaterali, allargamento delle organizzazioni internazionali, dialogo fra culture. Ma la sua posizione di trattativa non può che passare anche attraverso la riaffermazione del potere militare del suo paese.

 

Per questo non può abbandonare l’Afghanistan, per questo non può che impegnarsi in un braccio di ferro con l’Iran, per questo non può che consolidare l’influenza Usa in Iraq - insomma, non può che finire quello che Bush ha iniziato. Nel mondo, come dicevamo, l’Occidente si avvia a essere minoranza. È importante - e questo vale anche per l’Europa - che essere minoranza non significhi anche diventare marginali.