Washington-Roma rapporti faticosi

 

6/11/2009

 

MARIO CALABRESI

 

La sentenza del tribunale di Milano che condanna 22 agenti della Cia per il rapimento di un imam radicale egiziano non ha precedenti nel mondo ed è vista con apprensione a Washington perché riapre uno dei capitoli più temuti e spinosi per la nuova Casa Bianca di Barack Obama. La Digos di Milano e il procuratore Armando Spataro hanno visto riconosciuta la bontà della loro indagine, che nonostante notevoli impedimenti e un clima ostile è riuscita a dimostrare come ha agito sul nostro territorio il più famoso e potente servizio segreto del pianeta.

 

Il loro lavoro dimostra - anche se gli americani continuano a negarlo - che è possibile ricostruire nel dettaglio i comportamenti illegali dell’amministrazione guidata da Bush e Cheney e che è possibile anche portarli davanti ad un giudice per chiedere che si pronunci sulla liceità di azioni che ledono diritti civili basilari.

 

Obama ha sempre denunciato queste violazioni e durante tutta la campagna elettorale ha promesso che avrebbe messo fine all’uso della tortura negli interrogatori, così come avrebbe chiuso il carcere speciale di Guantanamo e le prigioni segrete della Cia, anche se ha lasciato aperta la possibilità (inventata da Bill Clinton) di fare extraordinary rendition, ovvero rapire e trasferire sospetti terroristi come Abu Omar. Seppur con dei ritardi e non senza confusione il nuovo Presidente americano sta mantenendo la sua parola sulle torture e le carceri. Ma una cosa ha deciso di non fare: indagare sul passato.

 

L’America si impegna a non violare più i diritti civili in nome della sicurezza ma, sempre in nome di questa, non processerà chi lo ha fatto in passato. Obama non può permettersi di tenere la Cia sul banco degli imputati per anni mentre sono in corso ancora due guerre, il terrorismo islamico non è battuto e l’Iran lavora per diventare una potenza nucleare. E non intende mettere sotto accusa Bush e Cheney: ci penserà la storia - è il suo ragionamento - e io voglio usare il mio mandato per costruire l’America del futuro, per cambiarla e non passare il mio tempo con la testa rivolta all’indietro, mettendo al centro della scena ancora la coppia repubblicana. La sentenza di Milano rischia però di riaccendere i malumori dei liberal e della sinistra democratica, che mal avevano digerito questa scelta del Presidente, e potrebbe costituire un precedente per indagini e processi in altri Paesi europei.

 

Questo non significa che la magistratura milanese avrebbe dovuto farsi carico di opportunità diplomatiche e agire diversamente: di fronte ad un’ipotesi di reato di questa gravità era tenuta a procedere come ha fatto. Ma dobbiamo sapere che questo avrà inevitabilmente e ha già, come vedremo, delle ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi. Il comportamento della politica italiana, agli occhi degli Stati Uniti, è stato confuso e ingiusto, tanto che con il segreto di Stato si sono salvati gli uomini dei servizi italiani ma non quelli americani. «Non abbiamo mai agito illegalmente in Italia e ne abbiamo sempre rispettato la sovranità», ripetono da anni al Dipartimento di Stato e questo significa una sola cosa: la Cia si muoveva all’interno di un quadro concordato, nell’ambito della lotta al terrorismo, con il governo guidato da Silvio Berlusconi. Il fatto che anche l’esecutivo Prodi, con Arturo Parisi ministro della Difesa, abbia opposto il segreto di Stato non ha fatto che confermare come ci fosse un’intesa politico-diplomatica dietro tutto ciò. Ma a fare chiarezza fino a questo livello il tribunale milanese non è potuto arrivare.

 

I rapporti tra Stati Uniti ed Italia sono già resi faticosi dalla nostra politica di alleanza privilegiata con la Russia di Putin, così come dai nostri rapporti con Iran e Libia, e negli ultimi giorni dall’ipotesi di un disimpegno dal Libano. Ora, paradossalmente, il primo a pagare il conto di questa diffidenza americana rischia di essere non Silvio Berlusconi bensì Massimo D’Alema, ancora in corsa per diventare responsabile della politica estera e di difesa dell’Europa. Nelle ultime ore infatti si sarebbe intensificata una pressione americana in favore del candidato britannico David Miliband, dettata anche dalla volontà di non premiare l’Italia, nonostante D’Alema sia il premier dell’impegno in Kosovo e il ministro degli Esteri che ha spinto per intervenire come forza di pace per stabilizzare il Libano. La scelta di D’Alema, si ragiona a Washington, verrebbe letta come un via libera ai comportamenti dell’Italia al di del candidato proposto. Non è un caso che, proprio ieri, un siluro alla candidatura dell’ex premier sia arrivato dal più atlantico e filo-americano dei nuovi entrati nella Ue: la Polonia. E così la battaglia ancora aperta su «Mister Pesc» si sta spostando da Bruxelles a Washington.