Il
presidente ragazzo
By
Barbara Spinelli
L’apparizione di Obama, non solo nel paesaggio americano
ma nel mondo, conferma qualcosa che ciascuno di
noi sa:
basta una persona forte, e il paesaggio d’un tratto può cambiare.
Una personalità che crede intensamente
nel bene comune senza vacillare
né badare a interessi particolari
può rimettere in moto quel che
pareva immobile, nella società e ai suoi
comandi. Può ridar senso alla
parola, quando sembrava che essa
l’avesse perso e che il ritiro nel silenzio
fosse la scelta meno indecorosa. Obama ha messo fine a
questa stagnazione. Ha vinto proponendo la speranza, che sorge
inaspettata proprio quando la passione ottimistica si spegne e - così ha detto il
nuovo Presidente alla cerimonia d’insediamento, ieri - l’inverno è profondo. Forse il
momento Obama è qui: nella parola da lui
ritrovata. Ma non è solo questo. Perché una grande personalità
si imponga, perché vinca tanti
ostacoli, occorre che il momento stesso, indipendentemente dalla persona, abbia una sua
intensità irresistibile. Occorre il
tifone più letale, perché nasca un grande capitano che porti
in salvo il bastimento: senza tifone il
capitano MacWhirr di Joseph Conrad sarebbe restato nel grigiore,
pur essendo portato al comando. Il profondo inverno
rivela l’eccellenza dello statista e al tempo stesso lo fa nascere.
Dicono che Obama pensava da tempo a candidarsi, ma che non riteneva giunta l’ora. Se ha forzato
i tempi è perché ha fiutato che questo
non era forse il suo momento ma di sicuro era il
momento più grave della storia recente
americana: e che da tale momento lui era chiamato, quale che fosse la sua maturità personale.
Nella sua autobiografia, egli ricorda i libri
che l’hanno marcato, da Shakespeare a Moby
Dick a Conrad: specialmente Cuore
di Tenebra, «che mi ha insegnato quel che spaventava
i bianchi nei neri,
e come nasce l’odio». Scrive Michiko Kakutani, critico letterario del New York Times, che Obama, per
i libri che
l’ispirano, ha un senso tragico della storia
e delle ambiguità umane, ed è refrattario
all’incoscienza ottimista delle ultime amministrazioni.
Quel
che è accaduto nel 2008 conferma l’inverno descritto da Obama. Il tracollo finanziario
testimonia di una fragilità americana
che molte amministrazioni hanno ignorato: dell’assenza di un «occhio vigile»
sugli spiriti animali del mercato. Le guerre che continuano in Medio Oriente certificano
che Washington ha fallito,
in quella che riteneva essere la sua funzione: egemonizzare
il mondo
e rifarlo da capo, spegnendo chi fomenta conflitti. Bush e i neo-conservatori avevano nutrito questo susseguirsi di bolle: l’illusione che gli Stati
Uniti fossero gli unici a poter
capire e aggiustare le storture dell’umanità. L’arroganza di tale illusione, unita a ignoranza e a una mancanza di
curiosità abissale, a cominciare dal clima e dal rapporto
con l’Islam. Non a caso, elencando antiche virtù dell’America,
Obama ha citato ieri quella
che tanto le è mancata: la curiosità. Questo è il
grande freddo che il Presidente
ha di fronte: non gli incidenti di
un impero paragonabile all’antica Roma, ma le rovine di una folie
de grandeur che da tempo
non fa i conti con la realtà.
Il senso tragico
della storia, se davvero anima Obama, lo aiuterà enormemente. Poiché si tratta di andare sino
in fondo, nell’esplorare la
notte. Le guerre contro
il terrore
non portano frutti, né in Iraq né in Afghanistan. In
Asia urge più della
guerra un negoziato vasto fra Pakistan, Afghanistan,
India, aggiungendo Iran, Cina,
Russia. È stato quantomeno azzardato far credere a piccoli nazionalismi (Georgia, Ucraina, Israele) che potevano tutto,
perché alle spalle avevano il gigante
Usa.
Sapere che la storia
è tragica non vuol dire vederla nera, senza
vie d’uscita. L’acme della tragedia
non consiste nella nemesi punitiva ma nella catarsi, capace di purificare
l’uomo che apprende la propria colpa e i propri
limiti. Per l’America è qui
il compito:
smettere la forza irresponsabile, aprire (dice
Obama) una «nuova era di responsabilità». Da secoli essa
vorrebbe essere il faro sopra
la collina: un sogno condiviso dal Presidente
afro-americano. Ma anche la
sfiducia verso gli Usa nel frattempo s’è fatta
globale. Anche in questo «il mondo è cambiato e urge cambiare con lui». L’America è a un bivio. La sua idea di sovranità nazionale
assoluta, che non riconosce autorità sopra di sé,
si è rivelata fallace, minacciosa. Non è detto che Obama sia all’altezza di un così
enorme momento storico: il momento
in cui l’America, se cosciente,
scopre il post-nazionalismo europeo; in cui riconosce che il
multipolarismo non è un malvagio
disegno cinese, russo o europeo, essendo ormai la realtà. Ma di certo
il momento
gli consente di guardare alto e lontano. È la sua
occasione. È il Tifone terribile che può
travolgerlo, o innalzarlo e
renderlo grande.