L'umiliazione Dell'alleato
FEDERICO
RAMPINI
«ÈIN viaggio per tornare negli Stati
Uniti», si limita a dichiarare a Washington
la signora Marie Harf, portavoce
del Dipartimento di Stato. Il caso è chiuso, per la diplomazia americana e la Casa Bianca. Chiuso,
con uno schiaffo all'Italia. A tornare felicemente a casa sua, indisturbato e sottratto alla richiesta d'estradizione, è Robert Seldon
Lady, l'ex capocentro Cia di Milano condannato
a 9 anni per la «extraordinary rendition» di Abu Omar. Fermato a Panama e inseguito da un mandato di cattura
internazionale dall'Italia,
Lady l'ha fatta franca. Il rilascio di Lady da parte delle autorità panamensi sarebbe stato deciso
proprio per «evitare la possibilità che venga estradato verso l'Italia». LO SOSTIENE il Washington Post, il primo ad avere dato la notizia.
Si
tratta dunque di uno sgarbo
in piena regola: gli Stati Uniti
si sono interposti,
per impedire che (sia pure in tempi lunghi) l'agente della Cia potesse venire consegnato alla giustizia di un paese alleato, l'Italia, membro della Nato. Il Washington Post,
con un "understatement", osserva che non sono noti
i mezzi con cui gli Usa abbiano
ottenuto il rilascio e la consegna di Lady. Ma le cronache recenti del Datagate e dell'affaire Snowden hanno ampiamente dimostrato quali siano i
mezzi di pressione che Washington è pronta a usare; e quanto siano efficaci,
perfino quando i destinatari sono
governi antiamericani. Per il Dipartimento di Stato, dopo
la succinta dichiarazione della portavoce di John Kerry, il "caso Lady" non esiste neppure. Ordinaria amministrazione. La ragione di Stato, che
esiste in ogni paese, è tanto più forte quando si sovrappone ad una mentalità imperiale.
Qualunque sia il presidente degli
Stati Uniti del momento, conservatore o progressista, sarebbe giudicato come un debole e un traditore degli interessi nazionali, se consegnasse "uno dei suoi" - in particolare un soldato o un agente dei servizi
- ad un tribunale straniero,
o a un carcere all'estero.
Le
umiliazioni inflitte agli alleati non sono rare. L'Italia vi è abituata. Tra i
precedenti forse il più tragico
fu la strage del Cermis nel 1988. Venti morti, per i giochi
spericolati di un Top Gun o
Rambo dei cieli, il pilota americano
Richard Ashby, decollato dalla
base di Aviano, che nelle sue folli
giravolte trancio` una funivia. Inflessibile,
il presidente democratico Bill Clinton non esitò
ad applicare verso un governo
amico (Romano Prodi) la Convenzione internazionale sullo statuto militare
Nato che garantisce che un militare Usa sia
giudicato solo dai "suoi".
Un
altro caso grave fu l'uccisione di Nicola Calipari, agente segreto italiano, da parte dei soldati
Usa in Iraq nel 2005 nelle fasi successive alla liberazione della giornalista Giuliana Sgrena.
Un
episodio di segno diverso, uno dei rarissimi
casi in cui fu l'Italia a tenere testa alla
superpotenza americana, avvenne nella base di Sigonella nel
1985. A Palazzo Chigi c'era
Bettino Craxi, alla Casa
Bianca Ronald Reagan. Un aereo egiziano
con a bordo il terrorista palestinese Abu Abbas fu dirottato dai caccia della
U.S.
Navy
e costretto ad atterrare a Sigonella. Craxi ordinò agli avieri
italiani, con rinforzo di carabinieri, di opporsi al rapimento
di Abu Abbas da parte di un commando americano della Delta Force. Ne seguì una lunga
crisi nei rapporti Washington-Roma. Un'eccezione,
comunque.
Non
sempre, non verso tutti, l'America si comporta
con identica prepotenza. Anche se prevale l'interesse nazionale - e la regola suprema che impone la protezione
dei propri militari e agenti segreti - un presidente e il suo segretario
di Stato hanno qualche flessibilità
nel trattare con gli altri governi.
In questa fase l'Italia non gode di una credibilità
tra le più elevate. Vicende così diverse come "l'affaire kazako" e il processo per la Costa
Concordia, contribuiscono a sedimentare
nell'opinione pubblica e nella classe dirigente
americana l'immagine di un paese dalle
istituzioni poco affidabili. Visto con gli occhi di
Washington, un paese dove la polizia
prende ordini dall'ambasciatore del Kazakhstan, non è certo
in grado di incutere timore al Dipartimento di Stato Usa. Non sono cose che
la portavoce Marie Harf può dire, né le dirà il consigliere
strategico di Barack Obama
Ben Rhodes; sono considerazioni
che "fanno da backgorund", da sfondo, quando
si valutano costi e benefici, vantaggi e rischi di uno schiaffo
ad un alleato. La Costa Concordia c'entra
egualmente, più di quanto si
creda: per l'immensa copertura che il
processo ha sui media Usa,
e l'immagine di lentezza e inaffidabilità della giustizia italiana che viene
rafforzata da queste cronache.
Non
siamo gli unici, certo, a ingoiare umiliazioni. Il presidente della Bolivia è stato dirottato e quasi sequestrato, solo perché
Washington ebbe il sospetto che stesse
trasportando Edward Snowden sul
suo aereo.
Quando l'America gonfia i muscoli,
perfino Vladimir Putin e Xi Jinping
sono indotti a cautela: il presidente
cinese ha spinto Snowden a lasciare Hong Kong, quello russo ha molte riserve sull'asilo politico. Anche in una fase
di declino, la logica imperiale continuaa far sì che per gli Stati
Uniti esistano "regole diverse" da tutti gli altri.
Salvo che la logica imperiale sia temperata
dal rispetto. Guarda caso, l'unico
leader straniero al quale
Obama abbia rivolto sentite scuse per il Datagate, offrendo
ampie spiegazioni e collaborazione, è stata la cancelliera tedesca Angela
Merkel.