L’undici settembre europeo

 

di Ernesto Galli della Loggia

 

Esplora il significato del termine: S tabilire a quale gruppo della galassia del terrorismo islamista appartengano gli assassini che hanno compiuto la strage nella redazione di Charlie Hebdo, decifrare in quale strategia s’iscriva il loro delitto, sarà compito della polizia e degli analisti.

 

In questo momento nelle nostre orecchie risuona solo ciò che secondo testimonianze attendibili essi gridavano mentre compivano la loro missione di morte: «Allah è grande», «Abbiamo vendicato il profeta Maometto». Oggi per l’opinione pubblica del mondo civile conta solo che essi abbiano detto queste parole, che nell’uccidere abbiano fatto appello all’Islam. Per esorcizzare un simile dato inquietante e mille altri dello stesso tenore di questi anni, la parte più colta e politicamente corretta dell’opinione pubblica di cui sopra ha adottato da tempo, in Europa, il termine islamofobia. E pensando così di risolvere il problema. Invece il problema c’è. Esso resta come un macigno a dispetto di ogni buona volontà e di ogni discorso edificante. Ed è precisamente il problema dell’Islam.

 

Cioè di un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani, dove nel complesso (nel complesso, perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e - questo è il punto decisivo - perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le altre parti del mondo. Dove le donne non hanno gli stessi diritti e doveri degli uomini e per le prime può essere considerato un reato perfino guidare un’automobile; dove la distinzione sociale tra sfera religiosa e sfera civile è labile se non assente; dove aprire una chiesa cristiana è perlopiù vietato; dove i regimi politici hanno quasi sempre carattere dispotico e di rado riconoscono le libertà, a cominciare dalla libertà di stampa, che altrove sono invece considerate ovvie; dove - come hanno imparato con il loro sangue le vittime di ieri - la satira contro il potere è sconosciuta e quella contro la religione considerata inconcepibile.

 

Non basta: un insieme di religione, cultura e storia dove pressoché ognuna di queste cose è largamente suscettibile di essere percepita o interpretata come blasfemia, come una bestemmia contro l’Onnipotente da pagare con la morte.

 

Se l’Islam è questo, allora noi vogliamo avere la possibilità di criticarlo come ci pare e piace: come abbiamo imparato a criticare il Cristianesimo, il Buddismo e mille altre cose. Possibilmente avendo diritto a non rischiare con ciò la vita: diritto che tra l’altro ci piacerebbe vederci anche riconosciuto da più di qualche voce autorevole di quel mondo. S tabilire a quale gruppo della galassia del terrorismo islamista appartengano gli assassini che hanno compiuto la strage nella redazione di Charlie Hebdo, decifrare in quale strategia s’iscriva il loro delitto, sarà compito della polizia e degli analisti.

 

In questo momento nelle nostre orecchie risuona solo ciò che secondo testimonianze attendibili essi gridavano mentre compivano la loro missione di morte: «Allah è grande», «Abbiamo vendicato il profeta Maometto». Oggi per l’opinione pubblica del mondo civile conta solo che essi abbiano detto queste parole, che nell’uccidere abbiano fatto appello all’Islam. Per esorcizzare un simile dato inquietante e mille altri dello stesso tenore di questi anni, la parte più colta e politicamente corretta dell’opinione pubblica di cui sopra ha adottato da tempo, in Europa, il termine islamofobia. E pensando così di risolvere il problema. Invece il problema c’è. Esso resta come un macigno a dispetto di ogni buona volontà e di ogni discorso edificante. Ed è precisamente il problema dell’Islam.

 

Cioè di un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani, dove nel complesso (nel complesso, perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e - questo è il punto decisivo - perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le altre parti del mondo. Dove le donne non hanno gli stessi diritti e doveri degli uomini e per le prime può essere considerato un reato perfino guidare un’automobile; dove la distinzione sociale tra sfera religiosa e sfera civile è labile se non assente; dove aprire una chiesa cristiana è perlopiù vietato; dove i regimi politici hanno quasi sempre carattere dispotico e di rado riconoscono le libertà, a cominciare dalla libertà di stampa, che altrove sono invece considerate ovvie; dove - come hanno imparato con il loro sangue le vittime di ieri - la satira contro il potere è sconosciuta e quella contro la religione considerata inconcepibile.

 

Non basta: un insieme di religione, cultura e storia dove pressoché ognuna di queste cose è largamente suscettibile di essere percepita o interpretata come blasfemia, come una bestemmia contro l’Onnipotente da pagare con la morte.

 

Se l’Islam è questo, allora noi vogliamo avere la possibilità di criticarlo come ci pare e piace: come abbiamo imparato a criticare il Cristianesimo, il Buddismo e mille altre cose. Possibilmente avendo diritto a non rischiare con ciò la vita: diritto che tra l’altro ci piacerebbe vederci anche riconosciuto da più di qualche voce autorevole di quel mondo.