Potere nero? Settimio Severo, il «proto Obama». Il sogno americano guarda a duemila anni fa
Due domini multirazziali e multiculturali. E la stessa impunità richiesta in giro per il mondo
Dal 1776, quando si proclamò indipendente, l’America si considera la «Seconda Roma». Nell’anno della pubblicazione dell’epocale lavoro dello storico inglese Edward Gibbon, «The Decline and Fall of the Roman Empire», due dei padri fondatori dell’unica superpotenza di oggi, Thomas Paine e William Drayton, la immaginarono la nuova «caput mundi». Nel generale George Washington, il loro primo presidente, uomo schivo, gli americani colti videro un altro Cincinnato. A lui, avvolto in una toga, lo scultore Horatio Greenough dedicò una statua di marmo simile a quella degli imperatori romani, che il popolino chiamò subito George Jupiter (Giorgio Giove). È probabile che il presidente ne fosse lusingato: cultore della romanità, amava a tal punto il dramma «Catone» di un altro inglese, Joseph Addison, da farlo recitare alle sue truppe.
Dal 2008, l’anno dell’elezione di Obama, il suo primo presidente nero, l’America ha un motivo in più per identificarsi nell’antica Roma. L’Impero romano, il più multirazziale e multiculturale della storia, ebbe infatti il proto Obama in Settimio Severo, il suo primo imperatore nero. Conquistato il potere con le armi nel 193, questo generale libico, nato a Leptis Magna nel 146, un protetto di Marco Aurelio, sposato a una siriana, inaugurò una nuova dinastia, la prima di colore della romanità. Nella moneta aurea che lo ritrae con la moglie e i due figli, diversamente dai loro il suo volto è bronzeo. Settimio Severo non era un democratico alla Obama, instaurò una dittatura militare. Ma Caracalla, il primogenito suo successore, estese la cittadinanza a tutti gli «ingenui» o uomini liberi di un impero che comprendeva un terzo del mondo conosciuto.
È probabile che la mostra sulla grandezza dell’antica Roma fornisca all’America altre ragioni per rivendicarne l’eredità. Le differenze tra le due civiltà sono notevoli. L’Impero romano fu frutto di conquiste, ossia delle armi (la «hard power»), quello americano, che non si è mai dichiarato tale, è frutto della supremazia globale della sua finanza e delle sue tecnologie, la «soft power». Al proprio interno, Roma fu sempre classista, con una rigida divisione prima tra i due «ordini» senatoriale ed equestre e i plebei, poi tra gli «honestiores» e gli «humiliores». Ma non fu quasi mai razzista, mentre l’America è l’esatto contrario. I governanti di Roma parlavano due lingue, il latino e il greco, le lingue dell’intellighenzia, ma in America sono i governati, le minoranze etniche, a parlarne due, la propria e l’inglese, le lingue di milioni di immigrati.
Tuttavia, le analogie tra i due imperi non sono un semplice cliché. La cultura americana è oggi dominante come lo fu quella romana duemila anni fa. L’America è animata da quel senso di «exceptionalism» o unicità che fu tipico di Roma. L’«American dream», il sogno americano del successo, riflette il «Roman dream». Sovente in America l’«outsider», il figlio del Terzo mondo è considerato un essere inferiore, come nell’antica Roma era considerato un essere inferiore il barbaro. E in giro per il mondo il cittadino americano chiede la stessa impunità del civis romano. Se visitiamo Washington, vediamo i fasci romani sul trono della statua di Lincoln, e ci accorgiamo che la «Union Station», la stazione ferroviaria, è la copia dei monumentali bagni di Diocleziano. L’America conta 16 città chiamate Roma: in quella della Georgia c’è la Lupa capitolina con Romolo e Remo, regalo di Mussolini nel 1929.
Cullen Murphy, storico che per vent’anni ha diretto la prestigiosa rivista Atlantic Monthly, è l’autore di «Are we Rome?» (Siamo Roma?), uno delle centinaia di libri sulle somiglianze tra il duro Impero romano e il morbido Impero americano pubblicati in America in oltre due secoli. Quello del crogiolo, ci dice Murphy, «non è un mito, l’America è un modello di assimilazione di etnie e culture estranee ed è portatrice di civiltà, non sempre benvenuta, come lo fu Roma. E al pari di essa, è un modello di crescita economica». Non è un mito neppure quello dell’unica superpotenza: «La pax americana è il volto contemporaneo della pax romana. È logico, pertanto, che i poveri vogliano immigrare in America e che i giovani vogliano conoscerla». «Al principio del primo millennio», osserva lo storico, «tutti volevano vedere Roma e oggi tutti vogliono vedere New York o Washington». Nel libro, uscito nel 2007, Cullen Murphy si è chiesto se l’America non sia nella situazione di Roma nel terzo secolo, alla vigilia della decadenza. «Dalla fine della Guerra fredda», dichiara, «non sa che ruolo assumere. Un ruolo quasi imperiale che può essere incompatibile con le sue istituzioni democratiche? Un ruolo più modesto che può renderla meno rilevante?».
L’America, prosegue, è alle prese con gli stessi problemi della romanità: «La presunzione di essere la nazione destinata da Dio alla grandezza. L’eccessiva militarizzazione. La corruzione e l’imprudente privatizzazione dei servizi pubblici. Il rifiuto di proteggere l’ambiente». Ma lo storico non è un «declinist», teorico del tramonto del potere americano. A suo giudizio, a differenza di Roma, l’America può non tramontare: «Abbiamo una straordinaria capacità di reinventarci e di innovare. Occorrono però un maggiore impegno nella società civile e più rispetto per le altre nazioni».
Ennio Caretto
9 ottobre 2012