I sorrisi spenti
I
piani anti crisi Europa-Usa e i sorrisi spenti
di Franco Venturini
Celebrata con entusiasmo su entrambe le sponde dell’Atlantico, quella tra Barack Obama e i suoi alleati
europei rischia di diventare una
luna di miele
tanto appassionata quanto breve. Tra
undici giorni il nuovo Presidente
Usa sbarcherà per la prima volta in Europa e parteciperà a una serie di vertici,
dal G-20 a Londra al consiglio Nato a Strasburgo all’incontro formale con la Ue a Praga. Aspettiamoci, e non saremo noi a dolercene,
solenni riaffermazioni di un legame antico,
grandi manifestazioni di amicizia e calorose
promesse di collaborazione. Dopo il tifo che
quasi tutti gli europei hanno fatto
per Obama, ci mancherebbe altro che così
non fosse. Ma dietro la barriera
dei sorrisi scontati, è in agguato un dissenso profondo e già acrimonioso che ai tempi dell’idillio
nessuno avrebbe potuto prevedere. Tutto parte dal G-20, e dal suo obiettivo
(condiviso) di combattere la recessione globale. Obama porta in valigia un messaggio chiaro: se si vuole
evitare un disastro servono nuovi massicci
stimoli fiscali, i governi devono
allargare ulteriormente la borsa e favorire il rilancio economico
attraverso la crescita dei consumi. È quanto stanno facendo
gli Stati Uniti ma anche la Cina e il Giappone,
mentre l’Europa, accusa Washington, si mostra avara e testarda. Gli europei
continentali (perché la
Gran Bretagna è piuttosto vicina agli Usa,
come spesso le accade) considerano irragionevole spendere per nuovi stimoli prima di aver verificato il funzionamento
di quelli già adottati. E mettono piuttosto l’accento, guidati da Francia e Germania, sul bisogno di
regolamentare il sistema finanziario, di inquadrare le attività delle banche, di impedire,
insomma, che quanto è accaduto a Wall Street e
dintorni possa ripetersi ovunque nel mondo. La disputa
risulterebbe soltanto dottrinale (e si scoprirebbe probabilmente che tutti hanno
ragione) se non venisse versata, qua e là, qualche goccia di veleno. Parigi
e Berlino sottolineano le responsabilità del «capitalismo anglosassone», e trovano singolare che la lezione venga da
chi ha sbagliato più di chiunque altro
(anche se Obama con questo
non c’entra). Inoltre gli europei negano
che i loro
stimoli siano globalmente insufficienti, dichiarano di voler
proteggere la solidità dell’euro e sornionamente «capiscono » che un sistema di regole
e di monitoraggio risulti fastidioso per Wall
Street o per la City di Londra.
Gli americani rispondono contestando i calcoli europei
sulla portata degli stimoli, e rilevano tacitamente che è difficile confrontarsi con una Europa priva di
un governo dell’economia comune. Quanto basta per mettere a rischio, dietro la solita facciata consensuale, l’effettivo esito del G-20. Le diplomazie
euro-americane, si dirà, hanno superato
ben altri ostacoli. Vero, ma questa volta la partita viene giocata al cospetto di arbitri che
non perdonano: la crisi economica, la disoccupazione, le borse, la fiducia che manca per rilanciare
i consumi. Intese come quelle già raggiunte sul
Fondo monetario non basteranno. Compromessi di basso profilo nemmeno. E se non si troverà una efficace
sintesi operativa tra la linea Usa
e quella europea che proprio in queste ore viene ribadita a Bruxelles, il rischio concreto
è che a breve termine tornino a galla recriminazioni che si credevano
superate: tra «gli europei che
non fanno la loro parte» e gli «americani arroganti». Intendiamoci, Barack
Obama resta per gli europei un simbolo di speranza e nessuno
manifesta rimpianti per il suo predecessore.
La novità è piuttosto che dalla pregiudiziale
entusiasta dei primi tempi si passa ora alla
verifica delle rispettive posizioni, e per quanto mascherato un insuccesso del G-20 potrebbe alimentare altre diversità transatlantiche. Obama riapre il dialogo
con la Russia, tratta sullo
scudo antibalistico e di fatto rinvia
l’allargamento della Nato a Georgia e Ucraina? La «vecchia » Europa di cui fa parte l’Italia applaude convinta, ma quella nuova che sta
a Oriente coglierà l’occasione per sollecitare al capo della Casa
Bianca unamaggiore cautela.
Mano tesa anche all’Iran? Bene, ma gli europei
(italiani in testa, dal momento che
avevano preso l’iniziativa) temono che Washington voglia fare tutto da sé
sollecitando contemporaneamente
più severe sanzioni dei membri della
Ue contro Teheran. Nuova strategia in Afghanistan? Ottimo, era tempo, ma sull’invio di forze supplementari
ben oltre il periodo elettorale,
sul loro impiego e persino sull’impegno finanziario-civile
la risposta europea sarà ben inferiore
agli auspici Usa. E ancora, l’Europa teme il
G-2, quel rapporto privilegiato tra America e Cina che oggi
pare inevitabile. Non tutti
sono d’accordo sul profilo che
secondo gli Usa dovrebbe assumere
la Nato, e l’America — questa volta d’accordo
con parecchi europei—non apprezzerà il ritiro
del contingente spagnolo dal Kosovo. Gli Stati Uniti vorrebbero
una sostanziale diversificazione degli approvvigionamenti energetici dell’Europa, che invece resta dipendente
da Mosca e lo resterà malgrado il progetto Nabucco.
E molti europei, Merkel e
Sarkozy in testa, non intendono
aprire le porte della Ue alla
Turchia dove Obama farà il 6 aprile la sua ultima tappa
e le sue ultime promesse. Problemi minori, quando vengono paragonati all’ampia piattaforma di convergenze che resta tra europei
e americani. Ma se il G-20
non riuscirà a conciliare stimoli economici e regole globali, se un Obama messo alle strette
dal bonusgate Aig non troverà l’accordo con europei consapevoli della fragilità dei loro
processi decisionali, allora una dinamica
alimentata dalla recessione trasformerà ogni dissenso in polemica. E si aprirà per questa parte dell’Atlantico il tempo delle illusioni perdute.
20 marzo
2009