Se
la finanza troppo avida calpesta i diritti umani
di Guido Rossi
25 settembre 2011
Una notizia
sconvolgente è quasi passata
in sordina nelle prime pagine dei giornali.
Si tratta dell'avvenuta esecuzione della condanna a morte, nello Stato americano
di Georgia, ove il razzismo è un fenomeno radicato, di Troy Davis, un nero accusato di aver ucciso più di
vent'anni fa un poliziotto bianco.
Nessuna prova
materiale sulla sua colpevolezza; all'opposto numerose denunce di testimoni
di essere stati conculcati dalla polizia per identificarlo e confessione di uno dei
testi di essere stato l'omicida.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha rifiutato di riesaminare
il caso, come ha correttamente ricordato ieri su Repubblica Alexander Stille, con un no espresso anche
da Clarence Thomas, anche lui
di colore, e non a caso nominato
da George Bush.
Mi si potrà chiedere
a questo punto perché una condanna
a morte nello Stato della Georgia abbia, a parer mio, un così
grave riflesso sulla devastante crisi economica in atto. La ragione è evidente, poiché l'incapacità di risolvere la crisi è, da ogni parte, attribuita alla debolezza dei Governi e delle
istituzioni politiche. Crisi dunque istituzionale
più che strutturale.
Si fa
in Europa pesare il deficit della politica, ma si colgono poco
negli Usa gli sconquassi che il capitalismo
finanziario ha portato alla democrazia americana, intontita da un'ideologia consumistica della società civile e da una pubblica opinione
che sempre più alimenta le disuguaglianze e sostituisce al democratico mito degli uguali l'etica
dell'egoismo.
Il nuovo candidato repubblicano alle presidenziali, attuale governatore del Texas, pur avendo mandato a morte 234 persone, ha dichiarato - con plauso generale - che dopo ogni nuova
esecuzione dorme sonni tranquilli. Sembra poi paradossale che questa ideologia
sia appannaggio anche della Chiesa cattolica, che pubblicamente ostenta riprovazione verso quei principi, ma poi mantiene una legittimazione della pena di morte
nei propri dettami del Catechismo, all'art. 2267, ove: «L'insegnamento tradizionale della
Chiesa non esclude, supposto il pieno
accertamento dell'identità
e della responsabilità del colpevole,
il ricorso alla pena di
morte».
In questa trappola, dopo passate decisioni
d'incostituzionalità della pena
capitale, è caduta la Corte
Suprema Usa, che dalla morte
di William Rehnquist e le dimissioni
di Sandra O'Connor, con le nuove
nomine della presidenza
Bush ha subìto una chiara involuzione nella difesa dei
diritti umani, come quello che coinvolge
la pena di morte.
Ne è un esempio eclatante la sbandata rappresentata dalla sentenza Citizen United v.
Federal Election Commission dello scorso
anno, che ha addirittura utilizzato il primo emendamento della Costituzione americana, il diritto umano
alla libertà di espressione, per proteggere la libertà delle grandi imprese
finanziarie di spendere senza limiti fondi societari
per l'elezione di candidati politici, incoraggiando gravi intrecci fra affari
e politica e aprendo la strada al fenomeno corruttivo. Il presidente Obama allora, ma oggi ben più tiepido,
denunciò la sentenza come una catastrofe per la democrazia americana. E a questa denuncia seguì un violento attacco di uno
dei maggiori filosofi americani, Ronald Dworkin, e di molti
altri.
È il predominio culturale
dell'economia finanziaria che ha sottratto i fondamentali diritti del cittadino e la stessa protezione dei lavoratori e delle classi più
deboli a vantaggio degli interessi del consumatore e degli speculatori. Continuino pure gli economisti a dichiarare che l'America è certamente in una situazione migliore dell'Europa, e magari a citare il loro premio
Nobel Gary Becker che lo Stato
ha una "moral obligation" a usare la pena di
morte, ma si rendano conto una
volta per tutte che la vera crisi
che ha portato al dominio della finanza sull'economia reale, all'occupazione del capitalismo finanziario sulle istituzioni democratiche, rende queste impotenti
a risolvere i problemi. Paura, insicurezza, diritti oscurati, insopportabile forbice fra ricchi
e poveri, inarrestabile declino economico non sono solo dovute alla mancanza di
leader europei contro la quale si è scagliato
Delors, o all'incapacità politica di Obama incurante spesso del diritto internazionale e dei diritti umani,
oppure alla dittatura italiana di una maggioranza
parlamentare svergognata.
La causa sta invece
principalmente nella cultura occidentale degradata a principi di avidità che
travolgono qualunque tessuto connettivo di una società
civile. La cultura del capitalismo ha ucciso i diritti umani.
La soluzione dei problemi
non sta dunque nelle sempre più
scomposte ricette economiche, da qualsivoglia parte arrivino, bensì in un nuovo ius gentium, quel
diritto delle genti la cui esistenza veniva già rivendicata
dal grande Gianbattista Vico. Diritto che conceda
alla cultura europea di riemergere
rivendicando i diritti fondamentali della sua civiltà, già
individuati più volte anche dalle
Nazioni Unite, e alla democrazia americana di ricordare i
suoi padri fondatori Madison e Hamilton e garantire
l'autonomia delle istituzioni democratiche e i fondamentali diritti dell'uomo.
25 settembre 2011